RACCONTI

LA STAGNOLA



Nell’immediato dopoguerra, dal 48 in poi, Mussomeli era un paese rurale. L’agricoltura era l’unica risorsa. I cittadini erano divisi in tante caste, professioni e mestieri, rappresentati da vari “circoli sociali”. Dopo 60 anni qualche strascico rimane ancora. I quartieri non sempre corrispondevano con le parrocchie, che prima di aggiungersi quella del Carmine erano tre: la Madrice, San Giovanni Battista, e Sant’Enrico. In quest’ultima vi abitavano la maggior parte dei contadini (li viddana). Attorno alla chiesa di Santa Maria i pastori. A San Giovanni erano mischiati, ma la maggior parte erano mestieranti e bottegai: putiari. Il quartiere della chiesa Madre era abitato dalle maestranze: calzolai, (scarpara), muratori, sarti, barbieri ecc. con qualche professionista, laureati e diplomati, impiegati e possidenti… e la maggior parte delle persone più importanti di allora. Quanto sopra per spiegare e capire meglio quanto stiamo per raccontare, essendo un fatto accaduto… con i nomi dei protagonisti diversi. Come spesso accade il contrasto tra dirigenti, “intellettuali” (alcuni famosi ricchi e potenti) e gli altri cittadini era abissale. Come dimostrano i personaggi in Bibliografia Mussomelese. In quel tempo amoreggiare con una ragazza liberamente era impossibile: li fimmini si taliavanu cu lu binoculu. L’unico sfogo ai maschi potevano offrirlo quelle donne che, bontà loro, facevano “favori gratis dopo aver pagato”. Un lunedì, i calzolai quel giorno erano di riposo, mastro Ciccio era andato di buonora nella sua campagna, in contrada Castello. Lui e il suo asino erano come fratelli, dove andava il padrone andava anche l’asino…poco ci mancava che questo lo aiutasse ad aggiustare le scarpe. Al ritorno verso casa, si fermarono all’abbeveratoio del Castello e bevvero tutti e due. Naturalmente mastro Ciccio dal rubinetto e l’asino Ciccuzzu (Franceschino) dalla vasca circolare. Appena mastro Ciccio ebbe finito di bere, si trovò davanti, come in un sogno, una bellissima donna prosperosa, armoniosa, vestita bene, tanto da sembrare Venere in persona. Sophia Loren al confronto sarebbe stata ridicola. “Posso bere anch’io? – disse la femmina. “Certo che può…- si scostò per farle posto come se fosse stata una regina. Appena finì di bere lei lo ringraziò e fece per andarsene e lui le disse: “Unni va?…o scusi dove va?” – A Mussomeli? –“ Sì a Mussomeli! – “e ci vuole andare a piedi? sono circa due chilometri…salga sull’asino!”. La fece salire su un muretto e l’aiutò a sedersi sull’asino, che considerava suo compagno e fratello. Appena il ciuco si sentì la bella donna sulla schiena s’incamminò tutto contento. Così poterono avviarsi verso il paese. Ogni persona che li incontrava guardava e sorrideva. Mastro Ciccio non si rendeva conto perchè i passanti si comportavano in quel modo. Un passante con la bicicletta appena arrivato andò subito ad avvisare la moglie della “bella notizia”: “Signora Maruzza…mastro Ciccio viene verso il paese con la Stagnola sopra l’asino, che figura…” La poveraccia appresa la bella notizia svenne e rimase a lungo incosciente. I curiosi non vollero perdere l’occasione e a centinaia si recarono all’ingresso del paese, al bivio tra Villalba e Caltanissetta (come si fa quando un prete mussomelese arriva per officiarvi la prima Messa). Appena li videro scendere dalla trazzera, un’accorciatoia che non c’è più, cominciarono a battere le mani. Un nulla facente del paese, da un grosso imbuto, a voce altissima urlò: “ Evviva lu zzì Cicciu cu la Stagnolaaaaaaaaa”. A sentire quel nome il poveraccio capì che aveva messo sul suo asino la più famosa Pu… pubblica, benefattrice del Vallone. Donna che tanti favori aveva fatto a Mussomeli, nei paesi limitrofi e oltre. Come è andata a finire? Io lo so. Provate ad indovinare. I fatti sono veri (ad eccezione dei nomi) se non ci credete… affari vostri sono…ah.                                                  ....................................

 SALVATORE GIULIANO
Non ricordo bene in quale anno, certamente non avevo ancora 11 anni (io sono del ’38), quando percepìi il movimento che c’era nella cartolibreria Amico, sita proprio di fronte al vecchio municipio di Mussomeli. Precisamente dove compravamo libri e quaderni per la scuola. Da don Pippinu Amicu si faceva ressa il giorno che usciva la dispensa (il fascicolo) che raccontava le gesta di Salvatore Giuliano: l’eroe popolare del momento. Un certo maresciallo Longo, si disse, partì da Mussomeli per catturare Giuliano e nel giro di qualche giorno tornò ferito ad un braccio…e fu subito trasferito altrove. Forse temendo la vendetta degli affiliati a Giuliano.
Gli organi di Stato definivano bandito Giuliano, ma la maggior parte dei siciliani onesti lo favoriva perchè la pensava diversamente…per alcuni era un vero esempio di coraggio e ribellione. Ricordare ora quel che allora si percepiva e vedeva con gli occhi di un bambino serve a capire l’ambiente culturale di allora, le abitudini, le situazioni socio economiche, culturali e ambientali di un popolo in guerra (si veda il libro sulla Banca di li parrini intitolato I cento anni della Banca di Credito Cooperativo San Giuseppe di Mussomeli di Enzo Giardina). Costretto a sopravvivere senza mezzi adeguati in condizioni di fame, cruda, reale…e costante…non era un film. Le ingiustizie e i soprusi e altro causavano disastrose conseguenze di intolleranza.
Questa era l’Italia del contrabbando e dell’ammasso. Il contrabbando faceva gli spregiudicati ricchi di soldi ma senza valori umani. Gli organi di controllo dello Stato preposti al cosiddetto dazio, in ogni dove, lasciavano passare autotreni di grano senza fare una multa e inveivano su i poveri contadini che si arrangiavano per tirare avanti. Come successe allo sfortunato Giuliano che per qualche sacco di grano da vendere a Palermo per barattarlo con altra merce glielo sequestrarono. Da questi ed altri motivi nacque la ribellione ed il diffuso banditismo.
La cultura della ribellione, sociale, regnava nelle menti di noi ragazzi…nonostante a scuola e in famiglia ci insegnavano come diventare cittadini modello. In noi ragazzi c’era la convinzione che la Giustizia non era affatto Giusta…e che alcuni organi dello Stato, e degli Enti pubblici, erano degli ipocriti truffatori e che Giuliano non era un bandito ma un mito. Nun si fa pusari na musca ncapu u nasu: non si fa posare una mosca sul naso (non si fa prendere in giro).
Perciò giocando si cercava di imitarlo. Come ora fanno i ragazzi con Superman e altri idoli. Io fui affascinato da Giuliano e organizzai una banda di circa una trentina di ragazzetti con i quali, tanto per cambiare, giravamo per il paese armati di fionde (filecci), archi e frecce appuntite fatte con i raggi degli ombrelli fuori uso. Armi pericolosissime perchè capaci di infilzarsi nel corpo umano e quindi anche negli occhi. La mascalzonata più eclatante che mi viene in mente è la seguente! Tornando da un’escursione al Castello, nei primi giorni di Maggio, ci capitò di passare vicino ad un campo seminato a fave. Assaggiammo le prime tenerissime fave verdi, ci piacquero molto…per questo, come cavallette, in un batter d’occhio mangiando e calpestando devastammo il campo. Neanche Attila avrebbe fatto peggio. L’avventura durò poco: le mazzate (li pira si chiamavano allora) dei nostri genitori e le nostre coscienze ci hanno fatto cambiare idea e avviarci sulla buona strada. Gli episodi narrati sono veri: ma si nun ci criditi affari vostri sunnu…ah! Per saperne di più su Caluzzieddu Di Giuseppe da Mussomeli vi invitiamo a consultare la scheda in Bibliografia Mussomelese
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U ZZI VICIU PAGLIA
Quando ero bambino, mille anni fa, sentivo parlare spessodi un uomo: lu zzi Viciu Paglia (signor Vincenzo Paglia al secolo Vincenzo Genuardi; cfr. Sorce Cocuzza, Storie e personaggi, 1990, pp. 221-223). Chi era? Cosa ha fatto?    
Chi è stato?…niente di speciale. Era semplicemente un cristiano praticante (1). Siccome la gente vi si rispecchiava, e il riflesso era a loro sfavore, gli dava fastidio. Come il sale nella minestra, in Chiesa c’era sempre, specialmente nelle occasioni delle Sacre Liturgie. Ha fatto tante cose belle…ha insegnato a pregare a tante persone. Spesso prendeva l’iniziativa di officiare il rosario, e lo recitava “miagliu” di li parrini: meglio dei preti. Per apprezzare meglio il di lui comportamento, bisogna trovarsi in Chiesa, ancora oggi, quando si risponde alla seconda parte dell’Ave Maria o del Padre nostro: Ognuno va per conto suo. Come se vi fosse in palio un premio per chi finisce prima. Il nostro amico era un contadino e lavorava la terra in solitudine. Le uniche compagnie erano la mula e la capra. Zappare la terra da solo non era un problema. Neanche arare in solitudine era un cruccio. Seminare da solo in quel tempo era impossibile: era necessario qualcuno (cu iìttassi a simenta) che gettasse la semenza. La mietitura con la falce era un vero calvario specialmente nella contrada “nnìvinedda” (Indovinella), una delle parti più basse del territorio mussomolese. La calura era insopportabile. I genitori dello scrivente avevano della terra in quella zona e capitava di incontrarlo, o di vederlo lavorare. Il saluto suo era “sia lodato Gesù Cristo”. Prima di inventare la mietitrebbia il grano e i legumi erano pestati dagli animali…equini o bovini. Ciò avveniva nell’aia: un pezzo di terra battuta a forma di un grande disco ove si versava il raccolto. Dopo l’immane lavoro bisognava aspettare il vento “pi spagliare”, cioè dividere le granaglie dalla pula e dalla paglia. Quando non c’era vento qualche contadino, disperato per la perdita di tempo, perdeva le staffe e le bestemmie, alte e sonore, si espandevano per la silenziosa campagna come una sciagura.A sentire quelle bestemmie il signor Vincenzo, si fermava un attimo e faceva il segno della Croce. Difficilmente il nostro amico si arrabbiava. Era un uomo solo…spesso preso in giro per la sua condotta da buon cristiano. Neanche ai preti era simpatico, perchè temevano il confronto con la sua condotta. Negli anni cinquanta, del secolo scorso, non c’era la TV, né svaghi di altro genere. Non c’era, per la verità, neanche il lavoro. Le Chiacchiere erano l’unico svago delle “male lingue e delle buone lingue”. Insomma…le maldicenze (a fuarficia, la forbice) erano all’ordine del giorno. Le occasioni per sparlare il prossimo erano tante: quando le molte piazze del paese erano piene e nei saloni dei barbieri…vere gazzette delle cronache quotidiane. Povero signor Vincenzo … com’era bello imbacuccato con quel mantello blu. Poviru zzì Viciu Paglia…quantu ièra biaddu cu dda scapuccina atturcigliata (2). 1) Cristiano a Mussomeli significava, essere umano, creatura di Dio. 2) Scapuccina, caratteristico mantello di panno blu, con cappuccio e ampie falde. Per saperne di più su Caluzzieddu Di Giuseppe da Mussomeli vi invitiamo a consultare la scheda in Bibliografia Mussomelese  Be Sociable, Share!                           .........................................................................

LULLUZZU 
cioè
Calogero Consiglio
Llulluzzu e la banda musicale di Mussomeli ai tempi del Maestro Alfredo Motolese e Gaspare Mingoia Anni 1940-1950 Prima di inventare i telefonini, quando per cellulare si intendeva l’automezzo blindato per trasportare i carcerati durante i loro trasferimenti, se si sentiva parlare da solo qualcuno per strada, gesticolando, si considerava matto. Oppure stava per diventarlo. Ora, invece… sentir parlare per strada è normale… perchè chiunque parla con i propri interlocutori col viva voce. Il dialogo avviene normalmente con gli altri a qualsiasi distanza. Anche se l’interlocutore si trova in un altro continente o a pochi metri, poco importa. La voce è sempre accompagnata da gesti come se il colloquio fosse fra persone presenti. Al contrario alcuni, muti come pesci, ora si ascoltano la musica con le cuffie, seduti a branco, senza degnarsi di uno sguardo, facendo intuire con i gesti il tipo di musica che stanno ascoltando. Dire che cos’è la normalità non è cosa facile… comunque io ho fatto, faccio e farò, il tifo per chi si fa i fatti suoi senza disturbare gli altri… per questo ho sempre rispettato Lulluzzu (Llulluzzu), ovvero Calogero Consiglio, bidello del corpo bandistico di Mussomeli. Il nostro beniamino fischiava benissimo, spesso si esibiva con melodie di brani d’opera lirica oppure con delle marce sinfoniche. Quelle bellissime marce che si ascoltavano fermi in piazza con tanta passione ! Non tutti sanno che la banna musicale di Mussumeli (banda musicale di Mussomeli) diretta dal Maestro Alfredo Motolese è stata premiata in vari concorsi bandistici e in diverse altre occasioni (come per esempio a Caltanissetta per le marce funebri durante le cerimonie religiose della Settimana Santa). Il corpo bandistico di Motolese aveva nel proprio repertorio le più difficili opere ed anche il bellissimo canzoniere napoletano. Ogni volta che si esibiva sul palco faceva un’ottima figura. Allora la banna di Motolese era una delle migliori dell’isola ! Lulluzzu, acchianannu e scinniannu faciva li surbizza a lu capu banna Gaspare Mingoia ca iera anche lannaru (traduzione: salendo e scendendo, fischiando fischiando sbrigava le commissioni affidategli dal capo del corpo musicale, che era anche idraulico latoniere) (Lulluzzu infatti lavorava anche per il capobanda Mingoia). La cuappila ‘ntesta e corchi cosa ‘nmani si guadagnava la spisa. Mentre certi lazzaroni, invece di cercare lavoro, perdevano tempo girovagando tra le piazze del paese. E qualche volta cercavano di sfottere Lulluzzu che li zittiva con disprezzo: nun mi rumpiti a mincia…iìti a travagliari, ovvero: non rompetemi il …., andate a lavorare. La semplicità di un’anima e le varie melodie dei più grandi musicisti mondiali, apprese dalla banda Motolese, facevano sentire felice il nostro Lulluzzu, per quanto è possibile esserlo su questa terra. Nota dell’autore Ho conosciuto Lulluzzu nei primi anni 50 del secolo scorso. Io ero dodicenne primo corno della banna del Maestro Motolese…e il nostro amato Lulluzzu era tuttofare del corpo musicale di Mussomeli. Era attento e premuroso verso tutti noi musicanti. Il capo del Corpo Musicale era Gaspare Mingoia, un eccellente primo clarinetto che suonava senza libretto, cioè: sempre a memoria. L’unico tra noi. Gaspare Mingoia abitava in Via Caracciolo ed era idraulico-latoniere, ma per tutti era u capu banna lannaru. Lulluzzu, quando faceva le commissioni per Gaspare Mingoia, fischiava sempri li motivi di li marci di la banna. La sua caratteristica, dopo la cuappila, era il fischio, assieme a nun ci rumpiri la mincia. Lo ricordo con commozione e affetto… e qualche lacrima !
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UMANE STORIE DI EMIGRANTI
 Caluzzu (Calogero) non aveva mai visto una stazione ferroviaria così grande. Quella del paese vicino al suo (Acquaviva Platani – Casteltermini) era una stazioncina con appena un paio di locali tutto fare e una piccola biglietteria. La ricorda in qualche poesia Salvatore Quasimodo perchè vi passò parte della sua infanzia in quanto suo padre era ferroviere.  I binari davanti alla stazione erano due. Uno di essi collegava le stazioni limitrofe, l’altro per far sostare qualche vettura o dare la precedenza in quanto tutta la linea Agrigento-Palermo aveva un solo binario. Tutto qui. Si stupì moltissimo vedendo le tre grandi arcate di ferro della Stazione Centrale di Milano. Rimase sbigottito ancora di più quando il fratello, che lo accolse alla stazione, gli disse che in città ve ne erano altre grandi, quasi, come questa. Appena scesero dal tram, dopo aver fatto un bel tratto di strada a piedi, giunsero a Quarto Oggiaro nelle Case Popolari di via Pascarella 20, ove abitava suo fratello con la propria famiglia. In quel “due locali” erano stretti, sì, ma contenti e fiduciosi verso il futuro. A quei tempi il lavoro c’era per chi aveva voglia di lavorare. Le lusinghe della città erano tante e bisognava stare attenti a non “scivolare verso il baratro dell’illegalità”. Vi ricordate il famosissimo film di Visconti Rocco e i suoi fratelli? Quando Caluzzu si rese conto che abitava in periferia e che il Centro era tutto un’altra cosa cominciò a pensare… alla fine decise che per lui l’importante era lavorare onestamente, per guadagnare tanto quanto bastava per farsi una famiglia. Anche se non era facile. D’animo gentile e affabile con tutti, Caluzzu, si stupì non poco quando cercando casa in affitto gliela negavano perchè meridionale… terùn. Ma che vuol dire? Si chiedeva… che ho fatto di male, io? Perchè tutta questa cattiveria. Per lui era inconcepibile tale comportamento. Si fece coraggio e cercò, cercò e cercò fin quanto la trovò e i suoi sogni cominciarono ad avverarsi. Ora stare in periferia per Caluzzu era come vivere al suo paese, aveva degli amici e gli piaceva molto avere contatti con delle persone. Si rese conto che i milanesi avevano un cuore come il suo… e che la gente era tanto cattiva o tanto buona esattamente come al suo paese in quella tanto martoriata Sicilia. Terra di varie conquiste nei secoli passati. Ogni periferia può diventare Centro… come il Centro, se non c’è comunicazione fra gli esseri umani, può essere peggio della periferia. Nel tempo libero studiò molto e cominciò a frequentare vari centri culturali… specialmente quelli artistici. Anche se si riteneva “ignorante” penso bene di fondare un Centro Socio-Culturale con propositi di migliorare lo stato esistenziale del quartiere.  Essendo “allergico ai bar” Caluzzu… vi entrava raramente per offrire qualche cosa agli amici o accettarla da loro: diceva sempre che “l’ozio dei bar rende le persone irritabili perchè parlano di cose inutili, perciò litigiose. Ad affermare la sua convinzione erano le cronache cittadine…sui giornali o in TV. La maggior parte degli atti delinquenziali avvenivano (o erano concepiti) nei bar o nei ritrovi notturni o in altre cose del genere. Mantenendo la sua integrità morale migliorò la sua cultura, divenne segretario politico, consigliere comunale, pubblicista e poeta-scrittore. Ancora adesso ama la periferia, abita felicemente con la famiglia in una cittadina adiacente a Milano da circa quaranta anni. Una storia come le tante, simili in tutto il mondo, che ci permettono di riflettere ed essere più comprensivi verso il prossimo.
Calogero Di Giuseppe.
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  NINUZZU L'AGNIADDU DI CALUZZU 

(Ninuccio l'agnello di Calogeruccio.)
Fatto vero.
 
L'ex pastificio- mulino (allora il secondo della Sicilia) Mussomeli (CL)
Per capire di che cosa stiamo parlando è bene precisare come si viveva, nella nostra Mussomeli , a cavallo della seconda guerra mondiale. L’economia della città era di tipo agricolo, senza alcuna industria, a parte la fabbrica di li gazzusi e qualche altra inezia del genere. Faceva eccezione in contrada Annivina il magnifico Pastificio detto della Madonna dei Miracoli, con annesso mulino per macinare il grano. Il pastificio era uno dei migliori della Sicilia: faceva pasta delle migliori qualità tra cui quella extra, che poche famiglie potevano permettersi. La maggior parte di essa la esportavano all’estero. Per il resto della popolazione c’era la pasta sfusa che le bottegaie (i putiara) tenevano in cassettoni senza coperchio, o la pasta pizziata, scarti di quella lunga frantumatasi durante la lavorazione, perciò a prezzo più basso. Per chi aveva la farina, la migliore alternativa era la pasta fatta in casa. Per i tanti che non l’avevano, non vi era altra possibile alternativa. La domanda è : chi aveva la farina ? I contadini che coltivavano il frumento ovviamente! Non di rado anche chi aveva i soldi non poteva trovare né pasta né farina. I contadini proprietari, durante e dopo la guerra, erano tra i pochi che stavano discretamente bene in quanto potevano contrabbandare di tutto. Il resto della popolazione si arrangiava come poteva. Molti in casa tenevano degli animali domestici: maiali, conigli, galline, (l’uavu ci vuliva sempri) porcellini d’India ecc. che assicuravano l’apporto proteico. E l’igiene ? Nel periodo che va dal 1940 sino ai primi anni 50, l’unico pensiero di tanti era quello di mittiri corchi cosa miazzu a li dianti (mettere qualche cosa tra i denti). Punto e basta. Per sopravvivere si faceva di tutto. Per esempio: c’erano dei forestieri che giravano il paese, con un mulo (o asino), con delle ceste ai fianchi carichi di pollame. Queste persone venute da altri paesi dicevano di comprare e vendere…ma in realtà, approfittando del pollame che starnazzava nelle nasse (stie) appoggiate ai muri delle case (o che era in giro per le strade), lo rubavano in un quartiere e lo rivendevano in un altro. In qualche caso c’era qualche comare che dava l’allarme: U gaddinaru passa…u gaddinaruuuu… trasiti l’armari (passa il pollaiolo ritirate gli animali). Quanto sopra è il preambolo per farvi capire meglio quello che sto per raccontarvi.
Un giorno mio padre si presentò a casa con un bellissimo agnellino tutto bianco, di un paio di mesi, che io subito, senza il permesso dell’arciprete Migliore, lo battezzai Ninuzzu (Ninuccio).
Era la mia ombra: eravamo sempre insieme. Tornando da scuola, non vedevo l’ora di vederlo per giocare con lui. Lo portavo nelle campagne vicine a pascolare. Oppure nella mia campagna in contrada Germano, luogo bellissimo e salutare, dove ancora oggi mi godo le vacanze estive.

Quando eravamo a Germano capitava che si addentrava nella giglia (montagnetta) e non vedendolo lo chiamavo per nome oppure con l’inizio della colonna sonora del film Capitano Nero, emettendo dei suoni con la gola. Subito spuntava dalle rocce e correva a strofinarsi tra le mie gambe. Si sa che questi animali crescono più in fretta dei ragazzi, e l’istinto li attrae sempre verso i propri simili. Un giorno passò, dalla vicina strada, un gregge di un centinaio di pecore. Ninuzzu sentendo belare non resistette più al richiamo dei parenti e si mise a correre verso il gregge. Il pastore, sentendomi chiamare, lo allontanò minacciandolo col bastone, e Ninuzzu non sapeva più cosa fare … io lo chiamavo, ma non veniva. Arrabbiato, presi una pietra e gliela scagliai. Sfortunatamente lo colpii proprio sulla nuca. Poveraccio… girò su se stesso e si accasciò per terra. Mi misi ad urlare aiuto piangendo. Urlavo aiuto…aiuto… Un contadino che da lontano aveva assistito alla scena, mi gridò: scimunitu iettaci un quatu d’acqua ‘ntesta ca annivisci (scemo buttagli un secchio d’acqua sulla testa che rinviene). Così feci. L’agnellino si alzò e invece di scappare lontano dal suo assassino vi si mise tra le gambe accarezzandolo con la sua soffice lana. Mi sentii più meschino dei meschini: Caino. Stavo per uccidere un mio fratello! Mi inginocchiai e lo abbracciai forte forte, piangendo e ridendo contemporaneamente per la felicità. Ma la felicità non è di questo mondo. Qualche mese dopo, tornando da scuola (quarta elementare) non trovai più Ninuzzu. Mia madre, con molto affetto, mi fece capire che l’agnello, pur non essendo Pasqua, era stato sacrificato: purtroppo aviamu bisuagnu di sordi… a mamà. Questa notizia è stata la prima croce che mi ha iniziato alla dura realtà della vita. Ancora oggi ne porto il ricordo. Quando mio papà la sera tornò dal lavoro mi diede la pelle, pulita e pettinata, e mi disse: cu chista fa nu scinni liattu, quannu ci mitti li piadi di ‘ncapu penza a Ninuzzu… ma fici mittiri apposta da parti du maciddaru ( questa è la pelle di Ninuccio…usala per scendiletto, così te lo ricordi ogni volta che vi metti i piedi sopra …. me la son fatta preparare apposta dal macellaio). Mio padre era di poche parole, ma sapeva quel che faceva…al momento opportuno. Questo è un racconto di un fatto realmente accaduto…ma se non volete crederci, affari vostri sono ah…u capistivu ? Per saperne di più su Caluzzieddu Di Giuseppe da Mussomeli vi invitiamo a consultare la scheda in Bibliografia Mussomelese oppure "LADISCUSIONE" ww.tuttokalosghero.blogspot.com

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IL RACCONTO DI BEPPE CALZETTA
-Poverino…non gliene è andata mai bene una…persino da morto è sfortunato. –     Hai ragione, se oggi fosse stata meno afosa la giornata ci sarebbe più gente e il corteo sarebbe riuscito meglio. La gente preferisce stare in casa, al fresco, anche se gli volevano bene non vogliono sudare accompagnandolo al cimitero. Hai sentito la predica? -    Si che l’ho sentita…e sotto sotto ridevo. Ti confesso che anche io ridevo…del resto era così naturale ridere mentre predicava il prete…povero caro Beppe, proprio per il suo funerale doveva capitare il prete balbuziente. -  Balbuziente lui, il postino, balbuziente la predica per il suo elogio funebre…Parla piano ci sentono… Stai tranquilla, quelle dietro a noi parlano di moda e qui davanti a noi parlano del derby Inter Milan.   Dicevi? Affermavo che quella predica sarebbe stata ottima, come contenuto…ma detta così con le parole sincopate… mi sembrava una canzone di Natalino Otto.  Il discorso del prete in chiesa te lo ricordi? E come no; ascolta: “Fraaaaa fraaa fraaatelli, oooggi è uuun trii triiste giorno peer noi; è mancato iiil caro pooostino Beppe Caalzetta e ci e ci (salute) e ci lascia assieme ai ai suoi figli…Così ciarlando le due pettegole, Maria e Brunetta, soprannominate le comari del paese seguivano il feretro che aveva lasciato la chiesa e si avviava verso il cimitero lungo il viale, ancora bianco, che lo collegava al paese. Dalla periferia al cimitero il vialone era fiancheggiato da vecchissimi cipressi e da un piccolo muretto dove, al ritorno, i becchini sostavano a riposare, quando le bare (tempo addietro) erano portate a spalla. Ma ora la tecnica    fa miracoli: i morti vanno da soli… (si fa per dire) senza fatica: vanno in auto. E non è poco per chi da vivo non è mai andato. I cittadini di Morte Allegra amavano Beppe il balbuziente, era un postino esemplare e soprattutto simpatico. Le donne andavano pazze per lui. anche se ti amo glielo diceva arate, a sillabe. Ma, come accade a tanti, purtroppo, portò una sola donna all’altare: fu sposo perfetto. Le altre donne dovettero accontentarsi di guardarlo solamente. Nonostante l’afa di luglio le, sue innamorate hanno fatto la fatica di ordinare le “corone di fiori” per lui. Vi erano più fiori che gente al funerale. Il gestore delle pompe funebri ebbe il suo da fare per sistemare i fiori dignitosamente e con alcuni addobbò i finestrini della corriera del paese destinata a condurre i partecipanti in paese al ritorno. Il pullman così sembrava sistemato per una festa invece che per il triste evento. Altri mazzetti di fiori erano portati a mano. Tante ragazze preferirono rimanere a casa per non svelare il loro amore per il povero Beppe: il paese è piccolo e la gente mormora… La moglie, poverina, sembrava una delle tante statue che rappresentano l’addolorata ai piedi della croce di Gesù: vestita di nero, la camicetta di pizzo bianca sotto la giacchetta ed il viso coperto dal velo faceva davvero pietà. Nella fretta si era vestita male: la sottoveste verde con la frangia rosa facevano capolino da sotto la gonna mettendo in risalto la ridicola varietà dei colori. Nessuno osava aggiustargliela: “Non stava bene in quell’occasione”. Ma intanto qualcuno rideva coprendosi la bocca con le mani o nascondendosi col velo… e qualche risatina era scambiata per pianto. La salma era situata in una vecchia automobile, una balilla appena verniciata   e ornata d’angioletti e d’arabeschi. Sopra il tetto ad urna, un bell’angelo teneva una croce e un nastro in cui stava scritto: REQUIESCAT IN PACE. Il che non era facile con questo movimentato funerale poi in sosta come vedremo. Quattro impiegati delle pompe funebri stavano ai lati della “carrozza” mortuaria proprio con la faccia da funerale a pagamento.  I chierichetti (gratis) erano davanti alle figlie di Maria, mentre alcuni preti ordinavano il corteo. La banda del paese suonava la solita marcia funebre. Il corteo procedeva “sempre verso il cimitero”: non si potevano sbagliare…la strada la sapevano perché a Morte allegra si moriva spesso.  All'improvviso, proprio a metà strada, in mezzo al vialone con i cipressi, si è sentito "tossire" il motore della balilla mortuaria…sussultare e poi fermarsi. L'autista scese per individuare il guasto. Aprì il cofano dell'auto e cominciò ad armeggiare. La processione per i primi dieci minuti fu quasi composta (si fa per dire), ma poi, per il caldo, i fazzoletti invece di asciugare le lagrime asciugarono il sudore. I preti si sedettero sul muretto, i chierici con gli altri bambini si fecero la guerra con le bacche dei cipressi tirandoseli come proiettili. Le donne recitarono il rosario a modo loro all'ombra e gli uomini, dopo aver appoggiato i fiori ai margini della strada, si misero a lodare il povero Beppe Calzetta, buon'anima, pensando a quanto era stato sfortunato: anche il funerale gli stava andando male. Dopo vennero altri argomenti da trattare mentre l'autista solo…in mezzo alla strada col morto, tentava d'avviare il motore. Un gregge di capre che pascolava nei dintorni si incuriosì e si avvicinò al corteo annusando i fiori e mangiando le foglie…in breve le corone furono disfatte e la strada fu piena di "ceci neri" caduti da sotto la coda dei ruminanti. quando se ne accorsero era troppo tardi. Tra i fiori per terra con le bacche, i bambini che vociavano, il parroco che gridava state zitti, le capre che belavano qua e là, il funerale si era tramutato in una festa campestre. Se poi teniamo conto delle persone sedute all'ombra dei cipressi che mangiavano frutta, rubata nel frutteto vicino, possiamo tranquillamente dire che sembrava più un picnic di fine settimana, un vero week end.  Il morto e l'autista erano gli unici a soffrire in mezzo alla strada. L'autista era sudato: per la rabbia pensava parolacce ma non osava dirle per rispetto a Beppe buon'anima. Era quasi mezzo giorno quando il motore si avviò facendo sentire il suo rullio. Un lungo applauso premiò la fatica dell'autista come se fosse un divo in pieno successo teatrale. Il corteo, finalmente, si avviò verso il funesto traguardo a passo di bersagliere. La polvere ormai si era posata sui vestiti neri e bianchi. Le calze delle donne si erano smagliate con l’erba secca dove si erano sedute e il trucco ormai si era sciolto sui loro visi sudati. I loro volti stanchi tra i capelli scarmigliati mettevano allegria mentre si guardavano sorpresi l’una con l’altra. Ma il povero Beppe dovette aspettare una settimana per essere inumato: una frana aveva coperto la sua fossa ed i muratori erano in sciopero con i becchini.  Peggio di così non si può morire… Balbuziente lui, il postino, balbuziente la predica per il suo elogio funebre.        Parla piano ci sentono…
Stai tranquilla, quelle dietro a noi parlano di moda e qui davanti a noi parlano del derby Inter Milan.
 Dicevi? Affermavo che quella predica sarebbe stata ottima, come contenuto…ma detta così con le parole sincopate… mi sembrava una canzone di Natalino Otto. Il discorso del prete in chiesa te lo ricordi?-  E come no; ascolta: “Fraaaaa fraaa fraaatelli, oooggi è uuun trii triste giorno peer noi; è mancato iiil caro pooostino Beppe Caalzetta e ci e ci (salute) e ci lascia assieme ai suoi figli…Tante ragazze preferirono rimanere a casa per non svelare il loro amore per il povero Beppe: il paese è piccolo e la gente mormora… La moglie, poverina, sembrava una delle tante statue che rappresentano l’addolorata ai piedi della croce di Gesù: vestita di nero, la camicetta di pizzo bianca sotto la giacchetta ed il viso coperto dal velo faceva davvero pietà. Nella fretta si era vestita male: la sottoveste verde con la frangia rosa facevano capolino da sotto la gonna mettendo in risalto la ridicola varietà dei colori. Nessuno osava aggiustargliela: “Non stava bene in quell’occasione”. Ma intanto qualcuno rideva coprendosi la bocca con le mani o nascondendosi col velo… e qualche risatina era scambiata per pianto. La salma era situata in una vecchia automobile, una balilla appena verniciata   e ornata d’angioletti e d’arabeschi. Sopra il tetto ad urna, un bell’angelo teneva una croce e un nastro in cui stava scritto: REQUIESCAT IN PACE. Il che  non era facile con questo movimentato funerale poi in sosta come vedremo. Quattro impiegati delle pompe funebri stavano ai lati della “carrozza” mortuaria proprio con la faccia da funerale a pagamento.  I chierichetti (gratis) erano davanti alle figlie di Maria, mentre alcuni preti ordinavano il corteo. La banda del paese suonava la solita marcia funebre. Il corteo procedeva “sempre verso il cimitero”: non si potevano sbagliare…la strada la sapevano perché a Morteallegra si moriva spesso.    All'improvviso, proprio a metà strada, in mezzo al vialone con i cipressi, si è sentito "tossire" il motore della balilla mortuaria…sussultare e poi fermarsi. L'autista scese per individuare il guasto. Aprì il cofano dell'auto e cominciò ad armeggiare. La processione per i primi dieci minuti fu quasi composta (si fa per dire), ma poi, per il caldo, i  fazzoletti invece di asciugare le lagrime asciugarono il sudore. I preti si sedettero sul muretto, i chierici con gli altri bambini si fecero la guerra con le bacche dei cipressi tirandoseli come proiettili. Le donne recitarono il rosario a modo loro all'ombra e gli uomini, dopo aver appoggiato i fiori ai margini della strada, si misero a lodare il povero Beppe Calzetta, buon'anima, pensando a quanto era stato sfortunato: anche il funerale gli stava andando male. Dopo vennero altri argomenti da trattare mentre l'autista solo…in mezzo alla strada col morto, tentava d'avviare il motore. Un gregge di capre che pascolava nei dintorni si incuriosì e si avvicinò al corteo annusando i fiori e mangiando le foglie…in breve le corone furono disfatte e la strada fu piena di "ceci neri" caduti da sotto la coda dei ruminanti. quando se ne accorsero era troppo tardi. Tra i fiori per terra con le bacche, i bambini che vociavano, il parroco che gridava state zitti, le capre che belavano qua e là, il funerale si era tramutato in una festa campestre. Se poi teniamo conto delle persone sedute all'ombra dei cipressi che mangiavano frutta, rubata nel frutteto vicino, possiamo tranquillamente dire che sembrava un pic nic di fine settimana un vero week end.  Il morto e l'autista erano gli unici a soffrire in mezzo alla strada. L'autista era sudato: per la rabbia pensava parolacce ma non osava dirle per rispetto a Beppe buon'anima. Era quasi mezzo giorno quando il motore si avviò facendo sentire il suo rullio. Un lungo applauso premiò la fatica dell'autista come se fosse un divo in pieno successo teatrale. Il corteo, finalmente, si avviò verso il funesto traguardo a passo di bersagliere. La polvere ormai si era posata sui vestiti neri e bianchi. Le calze delle donne si erano smagliate con l’erba secca dove si erano sedute e il trucco ormai si era sciolto sui loro visi sudati. I loro volti stanchi tra i capelli scarmigliati mettevano allegria mentre si guardavano sorpresi l’una con l’altra. Ma il povero Beppe dovette aspettare una settimana per essere inumato: una frana aveva coperto la sua fossa ed i muratori erano in sciopero con i becchini.  Peggio di così non si può morire… 
Così fu scritto sulla sua lapide: Qui giace BEPPE CALZETTA ad egli così calmo toccò morire in fretta. A gli amici lenì il dolore per lui neppure un salmo. Nell’ultima via si fermò il motore pregate per lui nostro Signore. Qui giace CALZETTA BEPPE neanche morire in pace purtroppo egli seppe. Qui tace BEPPE CALZETTA ad egli così calmo toccò morire in fretta. Novembre 1979
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 Quarto premio al Concorso seconda edizione premio Meliusum.  Montagnareale 1998.


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 IL PIATTO VOLANTE
Spaghettina
Calogero Di Giuseppe
Una volta non c’era UNICEFCITY, ma un grandissimo campo incolto, di solito verde, e una piccola casetta con cucina e un camino, una camera da letto, un salottino e una cameretta per una bambina sempre allegra. Lisetta vedeva la TV quando i genitori lo permettevano. A cena guardavano insieme il telegiornale e, una sera, capitò di vedere dei bimbi mal vestiti, scheletriti e affamati. Lisetta ne rimase sconvolta. Per la prima volta capì che non tutti hanno cibo in abbondanza e arrossì pensando a tutti i capricci che ha fatto con la mamma per mangiare. Pensò anche ai suoi compagni e compagne di classe della terza A…a come sciupano l’abbondante colazione. Da quel giorno divenne sempre più pensierosa e non dimenticò mai quei volti macilenti, imploranti e tristi. Un giorno la mamma le apparecchiò a tavola un bel piatto di fumanti spaghetti con il ragù invitandola a mangiarli subito prima che si freddassero.  Lisetta assorta, quasi in estasi, vide il piatto che gli stava davanti girare lentamente in senso orario...  staccarsi da tavola e girare, girare, sempre più forte e uscire dalla finestra,assieme ai piatti dei  genitori. In un attimo (come in sogno) i piatti furono dieci…cento…   mille…e a stormo sparirono sempre piùin alto tra l’azzurro del cielo. Poi li vide posare (atterrare come un UFO) in quelle terre sconosciute dove aveva visto tutti quei bambini tristi e affamati … e
per un attimo li vide felici. -         Lisetta cos’hai oggi? Stai male? Perché non mangi?La voce della mamma la stupì e ancor più trasalì quando vide che il suo piatto era ancora davanti a lei. Fulminea prese il piatto, scese di corsa la piccola scala, velocissima percorse la stradetta verso una baracca occupata da extraeuropei e in un attimo la raggiunse. Trafelata bussò…la porta si aprì e una piccola bimba con lunghi riccioli bruni venne fuori: in silenzio
prese il piatto ed entrò accennando un saluto. Spaghettata (così la chiamarono d’allora i bimbi) convinse la sua ed altre classi a raccogliere risparmi per l’UNICEF. Riuscì anche a parlare in una TV privata, fu invitata dalle radio locali e in poco tempo divenne popolare, il campo incolto divenne un cantiere edile, poi villaggio ed ora  U N I C E F C I T Y  che ha per stemma un piatto volante.
                                                    Pioltello 25/12/1997
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LA LEONESSA
CALOGERO DI GIUSEPPE..
FATTI REALMENTE AVVENUTI Durante l’invasione degli Alleati, nell’ultima guerra mondiale, la fame a Mussomeli era di casa, come e forse più degli altri comuni del Vallone. Gli Alleati, comunemente chiamati Americani, sbarcando nel sud della Sicilia continuarono a salire, da Vaddi e dalla strada mulattiera Sutera-Mussomeli verso nord. I tedeschi, prima nostri amici, poi diventati nostri avversari, si trovarono a passare da questi accessi verso il nord Italia prima degli americani… per raggiungere il resto dell’esercito di Hitler, già in ritirata forzata verso il loro Paese. Durante questo tragitto molti soldati tedeschi persero la vita nelle valli tra Sutera e Mussomeli. Io, allora, ero tra i 5 e i 6 anni, mi ricordo che dalla finestra di Via Militello n. 74 vedevo cadere le bombe che poi scoppiavano a terra. Ricordo anche l’accampamento, degli invasori americani, all’Annivina e a Castelluccio, ovunque c’erano cataste di latte per generi alimentari vuote. Sul far della sera, una volta u zzì Turiddu Trentacuasti, si mise d’accordo con i miei genitori per scappare dal paese, con le due famiglie, per andare a dormire a Castelluccio temendo bombardamenti a Mussomeli. Per un paio di sere abbiamo dormito tutti insieme a terra, uno accanto all’altro, stretti come sarde salate. Quanto sopra per dire che a quei tempi (guerra e dopo guerra) sopravvivere era l’unico pensiero di ogni mussomolese, come ogni cittadino degli Stati coinvolti nella guerra. La protagonista di questo fatto, era una donna che come tante mamme si dava da fare per non morire di fame insieme alla propria famiglia. Questa donna i mussomelesi l’additavano col soprannome di “l’Addilurata”. Il marito invece la chiamava a Liunissa, (la leonessa) per il coraggio e la caparbietà con cui gli procurava il lavoro, davvero in circostanze tristi, tragicomiche e straordinarie. Il “forzato mestiere” gli imponeva un certo abbigliamento e nel vestirsi non badava certo all’apparenza, anzi era molto trasandata e qualche volta dimenticava pure di pettinarsi. Per apparire mesta si copriva la testa con uno scialle nero o con un’altra tinta appropriata. Pensando alla sua numerosissima prole, fin dal primo mattino di ogni giorno era gia pronta per la lotta quotidiana. Il marito era un falegname che costruiva di tutto: mobili, serramenti, pile di legno (nota 1), maiddi (nota 2), mobili per la cucina e tutte le altre cose che riguardavano il legno. Il guadagno principale era però quello di un mobile per le ultime occasioni. Cioè quello che si indossa orizzontalmente: la bara. Specialmente per la povera gente: quattru tavuli nchiuvati, quattru manigli, na crucidda, na mascariata di virnici e lu tabutu iera fattu (cioè, 4 tavole, 4 maniglie, una crocetta, una pennellata di vernice e la cassa da morto era fatta) pronto per l’ospite involontario. A non farsi sopraffare dalla concorrenza degli altri falegnami ci pensava l’Addilurata, che di buon mattino si faceva il giro del paese per sapere se durante la notte qualcuno se ne fosse andato, o se qualche altra vecchietta stesse per tirare le cuoia. Oppure se c’erano aspiranti cadaveri che per qualche motivo stavano a letto in punto di morte. Ma se il malato non era grave i parenti la mandavano via… “vatinni ca nun ci nnè travagliu”: vattene che non c’è lavoro per te. Allora si usava che, aspettando il triste evento, gli amici e i parenti pregassero per “l’anima santa”. Quando il disinteressato emanava l’ultimo respiro ci si alzava tutti in piedi e si recitava l’eterno riposo. Prima che ciò accadesse la leonessa, addoloratissima, da vera attrice, recitava la parte che permetteva alla sua famiglia di sopravvivere. Rivolgendosi ai parenti più intimi, con fare costernato, come se fosse lì per caso diceva: cusà (ma speriamo di no) ci fussi di bisuagnu du tabutu ci pensa ma maritu ca vi fa risparmiari (se ci fosse bisogno della bara ci pensa mio marito a farla, perchè vi fa risparmiare). Ormai era così abile nell’intuire dove ci scappava u muartu che le persone appena le vedevano brillare gli occhi (nota 3), tornando a casa, le domandavano: cu murì? Quando è il funerale? Povera donna… anche se ero un ragazzetto mi stava simpatica e capivo bene il travaglio del suo animo … e l’istinto di conservazione che come una vera leonessa della savana, lottava quotidianamente, nella foresta umana, per non morire di fame ! 1) Pile: vasche di legno adatte per fare il bucato. 2) Maidda: piatto di legno, unico per i commensali, a forma rettangolare dove si versare da mangiare. 3) Nonostante l’atteggiamento triste, gli occhi esprimevano gioia per il procurato lavoro.
U MULINARU
U sceccu (asino) mussomelese e u mulinaru (mugnaio) di Mussomeli

Nei primi anni del 1900 sino agli anni ’60 a Mussomeli, cittadina agricola, gli asini per i poveri cristi, avevano un’importanza vitale. Si può affermare che tra gli asini e i poveri padroni c’era un afflatus straordinario. Quasi una convivenza forzata. Si volevano un bene da matti. L’uno non poteva vivere senza l’altro. Se il padrone non aveva l’asino non poteva carriare materiali (trasportare materiali) per i muratori, oppure ortaggi ed altre cose. Così l’asino aveva bisogno di lavorare, se voleva mangiare!  Se non sgobbava, il fieno e le fave secche se li poteva scordare.
Tutti giorni Cicciu (1), il nostro asino protagonista, col suo padrone, Turiddu (2) u Mulinaru, facevano il giro del paese. Cicciu, con la campana al collo camminava avanti e il padrone dietro avviandosi per quelle straducce della cittadina in cerca di qualche cliente che avesse grano da macinare. Il loro lavoro consisteva nel rilevare i sacchi di grano dal domicilio dei clienti, per portarli al Pastificio Maria Santissima dei Miracoli (uno dei più importanti della Sicilia) ove c’era anche un mulino, o più raramente in altri mulini del paese, per poi riportare gli stessi sacchi pieni di farina ai propri padroni. Le clienti, sentendo la campana, si facevano trovare col sacco pieno di grano già pronto sull’uscio di casa, e u Mulinaru li caricava sul suo vecchio asino senza pietà dopo aver ringraziato Dio per la provvidenza arrivata. Al contrario Cicciu, non ringraziava nessuno…per la rabbia mostrava al padrone quei pochi denti rimastigli …pensando anche alla poca compassione che Turiddu nutriva per lui. Entrambi erano accomunati dalla disgrazia delle strade che non erano in piano ma irte e tortuose, come in tutti i paesi di montagna. Un giorno, sfortunanatamente per l’asino, le signore clienti (gli uomini erano troppo occupati per altre faccende affaccendati)  divennero tante e Cicciu si trovò un bel peso da portare al mulino (che si trovava a sud del paese). La via più corta per il mulino era scoscesa e sassosa: uno stradone bianco pieno di pietruzze taglienti come quelle del Carso ed anche i muli che tiravano i carretti facevano fatica a salire. Per il povero asino quella strada fino al mulino era un calvario: sia a scendere che a salire. Camminando, la povera bestia si chiedeva spesso, perché avessero costruito il mulino così in basso. Si dava sempre la stessa risposta: per torturarloCosì un giorno, strada facendo, dopo Passu di Musca nel salire l’acchianata di San Caloriu, (la salita di San Calogero) caricato di farina, si sentì oltremodo appesantito e fermandosi sul ciglio del burrone di una piazzola, che ben conosceva, gli venne la tentazione di buttarsi da lì… giù nel torrente con tutta la farina che aveva sulla groppa.
U Mulinaru, vedendolo sostare più del consueto, cominciò a sgranare il rosario:
Adesso ti guardi pure il panorama!… Vuoi il binocolo per vedere più lontano?…Fai pure il turista eh?…Ti porto a Taormina o vuoi andare a Venezia?… U capisci o no che più viaggi facciamo più guadagniamo?Alcuni passanti nel sentire quel poveraccio del mugnaio si incuriosirono e cominciarono a godersi gratis lo spettacolo. U Mulinaru, esasperato, iniziò a frustare il povero asino che si intestardì come un mulo (notare la differenza) e non volle più camminare. Il Mugnaio, innervosendosi ulteriormente, aumentò la dose fra le risate dei presenti. Era una scena tragi-comica che fotografava bene la miseria di due poveri disgraziati legati da un unico destino ma, con interessi contrastanti. Tutto quel trambusto destò l’attenzione di una coppia di carabinieri che passava di là per un normale giro di controllo. Vedendo la misera scena, dopo aver fatto smettere u Mulinaru di picchiare e pungere l’asino, già sanguinante, il brigadiere gli chiese i documenti dicendogli: La denunciamo per maltrattamento di animali. Signor brigadiere…intanto l’animale è uno… u sceccu… ed è pure mio e gli faccio quello che mi pare! Se non state zitto, zzì Turiddu, vi denuncio per resistenza a pubblico ufficiale. Ma che resistenza a pubblico ufficiale…semmai sottufficiale… brigadiè… sottoufficiale. Anche carabiniere semplice ! Il fatto è che vi denunciamo punto e basta !
Giusto – risposero le persone che prima non avevano mosso un dito per non far picchiare l’asino - agli animali non si toccano. E così dicendo se ne andarono sdegnati lasciando quei poveri diavoli (Cicciu e u Mulinaru) né in cielo né in terra. Venne il giorno della causa, allora c’era la Pretura a Mussomeli, la notizia si sparse come l’aria, l’aula era gremita di curiosi più asini di Cicciu, pronti a ridere delle pene altrui. Come se loro fossero angioletti.
Salvatore Baccalà di anni quaranta, detto il Mugnaio, di professione non ben definita, siete imputato per aver frustato e torturato il povero asino che vi ha servito fedelmente per quasi vent’anni!… Vergognatevi! Non si dà il ben servito con la frusta o con pungoli ad una povera bestia indifesa. Considerando la vostra povertà,  nominatevi un avvocato d’ufficio !
Signor Giudice, non voglio nessun avvocato…neanche a pagamento…ci mancherebbe, sarei fritto. Perderei di sicuro… Si sa che gli avvocati… Ditemi allora…vi par giusto picchiare un povero asino?… perché lo avete fatto? Perché, signor Giudice, non potevo mai immaginare che il mio asino avesse così tanti parenti in questo paese per difenderlo, specialmente in quest’aula di tribunale. Io ormai col mio asino paci fici… nni vuliamu beni. Tra le lacrime, per il tanto ridere, il buon Giudice perdonò l’impertinenza assolvendo il Mugnaio il quale se ne tornò pentito a casa per consolare il suo Cicciu amico di sventura. L’indomani accuminciaru arrieri da capu.
Questo è un racconto di fatti realmente accaduti: si nun ci criditi fatti vostri sunnu.
1) Cicciu nome comune che in Sicilia si dava agli asini.
2) Salvatore Baccalà detto impropriamente il Mugnaio.
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                                                                     CATERINA
    Di Calogero Di Giuseppe
    Di Calogero Di Giuseppe
Tanti anni fa, quando l’Italia era in pieno conflitto per la seconda guerra mondiale, e le” truppe alleate” non avevano ancora invaso la Sicilia, in un paese  del centro dell’isola, fra tante povere famiglie, ve ne era una più povere delle più povere. Il capofamiglia era andato a” lavorare” in Africa…la terra promessa… mentre in casa era rimasta Caterina con i loro figli Tanina (Gaetana),Pina, Giovanni e Mario. La fame in quella casa si svegliava prima ancora degli abitanti…il profumo della verdura era sempre per aria e lo annusava anche il vicinato.
La pasta e il pane erano gli unici sostegni in quella casa, quando c’erano. Della carne ne avevano sentito parlare vagamente…Qualche uovo (ogni tanto) faceva festa in tavola e ne  tritavano la scorza con la scusa che il calcio gli rinforzava le ossa. Nei paesi del sud i bambini stanno a giocare più fuori che in casa e il portinaio non li rimprovera perché non c’è…e non ci sono neanche i cortili…ma strade e prati secchi senza erba, con tanta libertà da svolazzare liberi come uccelli . Tante volte i bambini andavano a mangiare verdura per i campi o a rubare frutta nei dintorni per riempire lo stomaco, ma l'appetito era perenne: non   correte –dicevano le mamme- non sprecate energia… se no vi tocca mangiare di più. Caterina, un giorno, chiese compagnia ad una vicina di casa con la scusa di fare alcune compere, quando con l’amica furono fuori, per le vie del paese, non si decideva ad entrare in nessun negozio, e la compagna spazientita le chiese  perché girassero a vuoto …senza comprare nulla . Caterina, piangendo, rispose che l’aveva chiamata perché in casa stava per impazzire sapendo che non aveva soldi e che si  avvicinava mezzogiorno e aveva solo l’acqua per cucinare per sé e per i propri figli i quali, come al solito, erano affamati…e non erano i soli né in paese né altrove.
Disse che il fidanzato della figlia Tanina non poteva salire su in casa perché non avevano una sedia in più per farlo sedere; disse anche tante e tante altre cose…
Caterina, grazie alla vicina di casa, che le diede l'occorrente per cucinare, non impazzì, né dal dolore né dalla fame perché poterono mangiare tutti anche quel mezzogiorno… ma la sera era imminente e con lo stesso problema di prima: sopravvivere.
                         Pioltello 27 Gennaio 1980
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VERSO LAMPEDUSA

V E R S O L A M P E D U S A

Calogero Di Giuseppe

Donare se stessi ... è questo che dovrebbero fare tutti i Poeti.

Soprattutto amare tutto e tutti. Non bisogna essere per forza santi... ma essere coerenti con la sensibilità della “espressione dell’anima”, chiamata Poesia.

Non si può essere poeti e infischiarsene del prossimo.

Migliaia di disperati scappano verso il mare per la Libertà e la trovano nei fondali del mare...

o prima ancora nell’arsura dei deserti.

Questo mi suggerisce la poesia della sensibile amica

Luisa Colnaghi.
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Arrivati alla spiaggia
lacerati nel corpo
con l'animo vuoto
sono sfuggiti alla tempesta
la lingua straniera
tradita nel ricordo
… fame, freddo
del tempo coloniale
scaldati al fuoco di Dio
dividiamo il nostro pane
Sanfrancesco ha donato
veste e mantello
ha parlato al lupo
.....
27 maggio 2011Luisa Colnaghi


L'ITALIA S'E' DESTA



L’ITALIA SE DESTA





DAL 13 Giugno scorso il “Tricolore” della nostra Bandiera è più pulito. Splende di più. Si è liberato dal grigiore in cui l’avevano infangato alcuni cittadini italiani. I veri italiani non sono un popolo di ladri o puttanieri. È naturale che in una nazione vi siano delle minoranze di farabutti e degli avanzi di galera che, spesso, sopprimono i bisogni dei cittadini esemplari.



ORA L’ITALIA S’È DESTA ...



lo dimostrano gli ultimi tre eventi elettorali democratici. Finalmente l’Italia ha riscattato il proprio onore con un Nuovissimo Risorgimento Italiano". La spazzatura è ancora al potere: diamoci da fare con una scopa nuova.



Vigiliamo e non fidiamoci di nessuno.



Calogero





AUTORI OSPITI

Pioltello, Via George Bizet, Musicista

I GRANDI UOMINI

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PEPPINO IMPASTATO

Giuseppe Impastato è uno dei grandi eroi sacrificatosi per la dignità della Sicilia e per riscattare la dignità di ogni uomo degno di tale nome. Ha lottato contro la mafia di cui “il padre ne era componente”. La verde città di Pioltello gli ha dedicato uno dei suoi grandi giardini pubblici per bambini, in via George Bizet proprio davanti ai plessi delle scuole elementari e medie. Nel cippo che lo ricorda si può leggere una delle sue poesie sottoscritta.

Lunga è la notte

e senza tempo.

Il cielo gonfio di pioggia

non consente agli occhi

di vedere le stelle.

Non sarà il gelido vento

a riportare la luce

né il canto del gallo,

né il pianto di un bimbo.

Troppo lunga è la notte

senza tempo

infinita.

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Ai prepotenti d’Italia, “Poetica Onestà” ricorda che sono ad un passo dalla morte: fisica e morale.

Neanche i vermi potranno sopportare la loro anima puzzolente.

Calogero